Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

LA RECENSIONE – LA SOCIETÀ SENZA DOLORE DI BYUNG-CHUL HAN (di Matteo Fais)

Care anime igienizzate, farfuglianti dietro un’insulsa mascherina, apostoli del “andrà tutto bene”, propugnatori del “tutti dovremmo recarci dallo psicologo” e deficienti falsi pacifisti di #odiareticosta, ho il libro che fa per voi. Leggetelo, divoratelo, poi vomitatelo per ingurgitarlo nuovamente.

Finalmente un testo che smonta la sciocca e mortifera atarassia del nostro tempo: Byung-chul Han, La società senza dolore, appena uscito per Einaudi. Si tratta di un agile lavoro filosofico scritto come andrebbe scritta ogni opera di pensiero che voglia dirsi tale, per comunicare, evitando il compiacimento insito in chi è abituato a trattare col linguaggio. Già solo questo sarebbe un ottimo motivo per acquistarlo, perché non vi è niente di male nel riuscire a farsi comprendere, contrariamente a ciò che credono tanti insulsi intellettuali, ancora convinti che una banalità proferita in modo astruso si trasformi per magia in abissale profondità.

Ecco una verità inconfutabile: la nostra società Occidentale ha rimosso il dolore dal suo orizzonte. “Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore”. Soffrire, essere infelici, farsi travolgere dal negativo è male, come sollevare in qualsiasi momento la sana dimensione conflittuale, il “la guerra è madre di tutte le cose”, che ha costituito la spinta della nostra storia.

L’arte, per esempio, di questi tempi ha da essere piacevole, possibilmente decorativa, pubblicitaria, così come la vita, perennemente “instagrammabile, ovvero priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore”. Si è dimenticato che “il dolore purifica, emana un effetto catartico”. Guai, meglio censurare anche i pericolosissimi cartoni animati. Guai, perché Woody Allen deve essere stigmatizzato per la sua vita privata, il pedofilo Gabriel Matzneff sbattuto fuori dalle librerie per l’oscenità delle sue dichiarazioni e le opere ottocentesce ripulite dall’ignobile parola “negro”. Non per Byung-chul Han che alla cancel culture replica che “L’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male”, altrimenti è catechismo, progressista quanto si vuole, ma catechismo.

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Ma che società è una società che ha bandito il dolore dal suo orizzonte? È quella in cui “La sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata. Le condizioni da migliorare non sono sociali, bensì psichiche”. Ecco perché ci vogliono mandare tutti in analisi, quando non ci portano gli analisti addirittura dentro le scuole o nei luoghi di lavoro. La responsabilità del nostro malessere si sposterà così dall’universo esogeno fuori di noi a quello endogeno, affonderà nell’infanzia, nei rapporti con i nostri genitori – quando mai l’ansia del giovane uomo senza lavoro sarà ampiamente motivata e non frutto di una sua patologica gestione dell’emotività? “L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica”, qui sta il punto. Concentrarsi sul proprio sé tormentato, come se questo fosse il mondo, invece che sull’universo che lo mortifica. Troppo rischioso. Potremmo renderci conto che non è proprio tutta colpa nostra e cominciare a esercitare il pensiero critico contro l’esistente. Chiusi nello studio asettico dello psichiatra dimentichiamo che non siamo i soli a patire per colpa di un mondo malato: “Il fermento della rivoluzione è però il dolore percepito insieme […]In tal modo si opprime e si rimuove la dimensione sociale del dolore […]La stanchezza dell’Io è la migliore profilassi contro la rivoluzione”.

Ma il dolore esiste, è vita. In una società che di esso non vuole sentire parlare, infatti, non si vive, l’esistenza si riduce a nuda vita, come ha dimostrato il Covid-19 e la strenua lotta alla morte in nome del suo rifiuto. “Il virus fa breccia nella zona di benessere palliativa e la trasforma in una quarantena in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza. Più la vita è sopravvivenza, più si ha paura della morte […] La pandemia rende di nuovo visibile la morte da noi meticolosamente rimossa e sfrattata”.

Per tutta questa serie di motivi, tendiamo sempre più verso il postumano, cioè l’annullamento del patire, l’esistere del robot e del cervello elettronico: “La vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa […] Chi vuole sconfiggere ogni dolore dovrà anche abolire la morte. Ma una vita senza morte né dolore non è umana, bensì non morta. L’essere umano si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l’immortalità, ma al prezzo della vita”.

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Ma la felicità vera non è questo, non si può disgiungere dal patire perché “la felicità dolorosa non è un ossimoro. Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità”. In una parola, anche la gioia, come ogni vero piacere, ci chiede di accettare il suo essere insopportabile, la sofferenza a cui è intimamente congiunta.

La società senza dolore di Byung-chul Han è non tanto un’opera che dovete leggere – voi fatelo, però –, ma che dovete regalare a tutti i pazzi sostenitori di questo mondo antivitale. Inseguite il signore che ha attraversato per non passarvi a cinque metri di distanza, avendovi visto privi di mascherina, e costringetelo con la forza a farsene donare una copia.

Matteo Fais

Canale Telegram di Matteo Fais: https://t.me/matteofais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Da ottobre, è nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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