Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

“IL DISUMANO TRATTAMENTO DEGLI ANZIANI, DURANTE LA PANDEMIA”: LA TESTIMONIANZA DI UNA LAVORATRICE DEL SETTORE (di Clara Carluccio)

Il Covid-19 era già arrivato. Guardavo le foto dei miei colleghi eroi appese al muro, come se fossero immagini di un mondo parallelo, che io non avevo attraversato. Ampi sorrisi e mani alzate a salutare, in memoria di quello che stavano vivendo come il periodo più esaltante della loro vita.

Nonostante il caos, sentivo in me un forte distacco, che a tratti mi preoccupava. Vedevo persone stanche del loro lavoro, in procinto di cambiare vita, ostentare un innaturale slancio di ottimismo e buon umore. C’erano arcobaleni attaccati sopra ogni letto, in ogni stanza, con il noto slogan di tre parole “Andrà tutto bene”. Poche settimane e quelle stesse persone sarebbero tornate a litigare con chiunque, e quegli arcobaleni avrebbero parlato ad un letto vuoto, senza più un corpo, e nemmeno un materasso.

Ho contato quaranta decessi in un solo mese. È vero, qualcosa stava accadendo. Io che occupavo un ruolo impietosamente catalogato tra i “lavori di merda”, che tra le altre cose ero spesso costretta a chiudermi a chiave per non prendere botte da un autistico di un metro e ottanta, avrei potuto cucirmi il distintivo in fronte, e negli applausi dei telespettatori, scoprire una vanità professionale mai posseduta. Ma c’era troppo in gioco.

Se fuori gli eroi venivano dipinti come un unico ed affiatato gruppo, nella RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) dove lavoravo io, le cose erano diverse. Mai dimenticherò come, inizialmente, i dispositivi di protezione venissero distribuiti per gradi. Le personalità più importanti sfilavano per il reparto con indosso il kit completo: tuta idrorepellente con cappuccio, mascherina FFP2, mascherina chirurgica sopra la FFP2, occhiali, visiera, guanti, manicotti e calzari. A tutti gli altri era stata consegnata una busta di plastica con dentro una sola mascherina azzurra, con l’avviso di farla durare, e firma per presa visione. Eppure, anche quell’unica mascherina, per quanto pidocchiosamente concessa, dava un certo lustro, e vedevo che qualche selfie compiaciuto, tra i miei colleghi, ci scappava sempre.

A lockdown inoltrato, e con gli ospedali pieni, era partito l’ordine di ricorrere alle contenzioni[1] per gli ospiti che mostravano una camminata tendenzialmente barcollante, onde evitare cadute e successivi ricoveri in una situazione già di per sé preoccupante. Ne è risultato che, costretti su una poltrona tutto il giorno, alcuni di loro perdessero quel poco di autonomia e capacità di movimento rimaste, sprofondando nella dipendenza totale. Emarginati nelle proprie stanze da mesi, persone in precedenza integre cognitivamente, hanno sviluppato disturbi comportamentali. Ho visto alcuni spegnersi in una sorta di coma emotivo, altri impazzire scavalcando le sponde del letto, farsi male pur di non rimanere da soli, urlando per ore, oppure piangendo. Qualcuno veniva a consegnarmi piatti e posate, per fare qualche metro fuori dalla camera.

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Oggi, sono le strutture a decidere quando un padre, una madre, un nonno o una nonna, possono incontrare i familiari. Giorni e orari prestabiliti, con buona pace degli impegni di ognuno. Una persona alla volta, una porta a vetro in mezzo, per evitare contatti fisici, un cordless per parlare, e ancora un grande arcobaleno attaccato al soffitto, perché non bisogna mai dimenticare che andrà tutto bene. Massimo trenta minuti a testa, perché le visite sono scaglionate e attentamente sorvegliate, poiché, stando alla versione ufficiale, “bisogna proteggerli”. E dopo aver protetto gli anziani dai loro figli e nipoti, li si può anche lasciare morire nella solitudine. Che poi chiedo, perché tanta ossessione per i contatti con i parenti, quando noi del personale ci avviciniamo agli ospiti come e quando vogliamo? Semplice, perché noi siamo estranei, e se c’è una cosa che ormai è innegabile ad ogni cervello funzionante, è che questo virus è il pretesto per distruggere l’economia e gli affetti, e specialmente, per impedire di crearne di nuovi. Perché se una pandemia, chiamiamola così, c’è stata, non ci si può permettere che ne arrivi un’altra, quindi le momentanee limitazioni, di relazioni e di spostamento, vanno assolutamente protratte, fino a diventare la nuova normalità di cui curiosamente ci avvertono da mesi.

Questi ottantenni, non posso che viziarli e rendermi loro complice più che posso. Girarmi dall’altra parte quando vedo la furba signora correre nella stanza della sua vicina, perché ha sentito un rumore sospetto, ma io so che non è vero. Posso farlo perché so che domani ci sarà una collega che invece la sgriderà severamente. E se la regola è versare loro due dita di vino, per poi allungarlo con acqua, non posso che riempirgli l’intero bicchiere, concedendogli almeno una piacevole bevuta. E se il protocollo impone di entrare nelle stanze coperta dalla testa ai piedi, rendendomi totalmente irriconoscibile, ogni tanto una chiacchierata a viso libero, seduta vicino a loro, la faccio. Atto per cui sono stata richiamata dal Direttore, e di cui non mi pento, per il quale non ho chiesto scusa. Chissà cosa sarebbe accaduto, se si fosse saputo che io a quelle persone stringevo la mano e, in certi casi, dedicavo persino un abbraccio, quando mi dicevano di sentire la mancanza dei nipotini. Oppure se sapessero di quella volta che ho messo della musica romantica, e un uomo e una donna si sono stretti a ballare un lento, e si sono baciati davanti a me. Eppure a causa delle mie mani nessuno è morto – e nemmeno del mio vino. Persino i due adolescenti di novant’anni stanno bene.

Ad agosto, tutti gli ospiti e i dipendenti risultati positivi al tampone si erano negativizzati, non avevamo decessi da due mesi e il reparto Covid era stato bello che chiuso. Eppure è stato il momento in cui la televisione versava nelle nostre menti la finta accusa di essere libere scimmie infette che si ammassavano agli aperitivi, vanificando i sacrifici fatti, e causando la nuova crescita di contagio e morte. Oggi mi ritrovo ad essere rimproverata da passanti qualsiasi, mentre cammino per strada da sola, con la mascherina abbassata. Nemmeno a questi chiederò mai scusa.

Clara Carluccio


[1] La contenzione è un particolare atto sanitario-assistenziale effettuato attraverso mezzi che possono essere fisici, chimici o ambientali utilizzati direttamente sull’individuo o applicati al suo spazio circostante con l’obiettivo di limitarne i movimenti.

Un commento su ““IL DISUMANO TRATTAMENTO DEGLI ANZIANI, DURANTE LA PANDEMIA”: LA TESTIMONIANZA DI UNA LAVORATRICE DEL SETTORE (di Clara Carluccio)

  1. Racconto raccapricciante, ma il fatto che esistano persone come Lei, mi danno, ancora di più, la forza per combattere. Niente è perduto per sempre.

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