Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

QUANDO LA VIOLENZA E’ UNA COSA BUONA (di Franco Marino)

Il mito della forza fisica ha impregnato l’epica sin dalla notte dei tempi. Sansone, per dire, è un personaggio biblico. Il trascorrere dei secoli e la sempre più ampia esplorazione degli spazi non ha cambiato questo ideale, insegnandoci semmai ad utilizzarlo nel modo giusto. E’ grazie ai greci che conosciamo l’ambivalenza della forza. Che è buona quando Ercole strozza i serpenti nella culla ed è infausta quando questi, impazzito, stermina la propria famiglia, venendo punito con le famose dodici fatiche.
La forza, quando violenta, è ambivalente: è positiva o negativa a seconda degli scopi. È sicuramente da deprecare quando la si usa contro il vecchietto che ritira la sua pensione all’inizio del mese o quando viene usata contro un fanciullo. Ma è benedetta quando quel vecchietto o quel fanciullo vanno difesi. Anche se preventiva. Chiunque veda i propri anziani genitori, la propria compagna di vita o i propri figli in pericolo e decida di eliminare uccidendo chi si rende pericoloso, merita tutto il nostro rispetto. Così come contro chiunque attenti alla sovranità di uno stato, va condannato a morte. Purtroppo – complice il più lungo periodo di pace che si ricordi – queste giuste condizioni si sono alla fine avvitate su sé stesse, facendo giungere l’opinione pubblica alla conclusione che la violenza è comunque da aborrire. Una mia cara amica la persi proprio mentre parlavamo di legittima difesa. Da quasi quindici anni, cioè quando la camorra mi bruciò due macchine perchè non pagai il pizzo, ho il porto d’armi nella convinzione che se qualcuno si avvicina a me nell’intento di farmi male, armato di coltello o di siringa, ho un’unica possibilità di difendermi: piantargli nel corpo una pallottola.
E questo mi ha esposto non di rado a riprovazione morale, nell’idea che se qualcuno mette in pericolo me o la mia famiglia, debba aspettare i comodi di qualche sbirro intento più a perseguitare chi non mette la mascherina che non a prevenire il pericolo imminente.
Naturalmente questa convinzione – tanto estremista quanto stupida – riguarda sempre avvenimenti ipotetici, lontani, e che riguardano altri. È un atteggiamento apprezzato nei pacifici salotti borghesi, nei talk show di La7 e dovunque si faccia a gara per essere moralmente eroici più degli altri.
Naturalmente le stesse persone, se fossero aggredite da rapinatori o se sentissero che i ladri gli stanno entrano in casa, sarebbero felici di vedere arrivare i Carabinieri armati fino ai denti e risoluti ad usare la forza. La violenza per autodifesa è scritta nel DNA di tutti gli animali, esclusi gli intellettuali di sinistra.

La moda comunque è al rifiuto categorico della violenza. Se il rapinatore ammazza il tabaccaio, il cattivo è il rapinatore; ma se il tabaccaio si difende ed ammazza il rapinatore, il cattivo diviene lui. “Era proprio necessaria tanta violenza?” E non se lo chiede soltanto la gente, se lo chiede anche il magistrato. Questa mentalità è invincibile, anche perché – nel nostro piccolo mondo ben protetto – per una persona che si è realmente trovata in una situazione di pericolo ce ne sono mille che non hanno mai avuto bisogno della violenza per difendersi. E dunque pontificano dall’alto della loro fortuna.
La società internazionale in particolare è quanto di più lontano si possa immaginare da questo Eden irenico. Lì valgono solo gli insegnamenti di quel preziosissimo manuale di socioantropolitologia che sono le favole di Esopo. Per cominciare, gli Stati non sono soci, sono piuttosto come gli animali acquarellati dal celebre narratore greco. Non esiste nessun “diritto internazionale” perchè mancherà sempre un’autorità superiore e disinteressata che abbia la volontà e la forza di applicare quelle regole.
In teoria ce ne sarebbe pure una, l’ONU, che Esopo deriderebbe raccontandogli la favola del leone, dell’asino e della volpe che reduci da una battuta di caccia, si spartiscono il bottino. L’asino fedele alla sua fama, divide il bottino in tre parti scatenando l’ira del leone che lo ammazza. La volpe fedele alla sua fama lascia quasi tutto al leone e un pezzetto per sè e quando il leone, complimentandosi, le chiede dove ha imparato a fare così bene le parti, la volpe risponde “E’ stata la disgrazia dell’asino”.
Fuor di parabola, il diritto internazionale esiste finchè gli stati hanno un sufficiente interesse, o una sufficiente paura, per farlo. E non bisogna lasciarsi illudere dalle pompe diplomatiche. Quando si incontrano, i governanti sembrano tutti disposti agli accordi più ragionevoli e i giornalisti hanno ben da spendersi a parlare di “unità d’intenti, di amicizia rinsaldata” e tutto il campionario di stupidità a cui assistiamo quando essi si mostrano alla stampa. Tutto ciò, direbbero i francesi, è “pour la galerie”, per gli spettatori più ingenui. A porte chiuse, l’argomento più forte, in ogni discussione, è la minaccia militare. Ognuno fa pesare la propria forza militare, i propri alleati, la propria potenza economica, e ogni conclusione è la risultante degli interessi e delle forze contrapposte: con totale esclusione di ogni argomento morale o giuridico, tanto che la Russia si è potuta annettere la Crimea – sì ok, col referendum, provate ad annettere l’Istria con un referendum e poi mi direte – senza che gli USA potessero farci niente, tranne imporre sanzioni stupide che contro un paese autosufficiente funzionano come un boomerang. Ogni discussione che intenda prescindere dalla forza, ogni convinzione che tutto si possa risolvere con la diplomazia, nella politica internazionale è tanto inverosimile quanto l’idea di discutere con un leone affamato che ha appena catturato la sua gazzella.



Ciò non vuol dire che la pace non abbia avvocati. Ma ciò che tempera gli atteggiamenti bellicosi non è l’aprioristica stramaledizione della guerra, quasi a volerla escludere dalla storia ma un semplice dare e avere di costi e di benefici. Se ragionassi da tifoso, dichiarerei guerra alla Croazia per riprendermi l’Istria e la Dalmazia. Ma da politico dovrei chiedermi se il dare (costi di guerra, ostilità di altri paesi) giustifichi l’avere (i vantaggi economici e di prestigio che ne ricaverei).
E analogamente, l’unico discrimine dell’uso della violenza è la sua effettiva utilità. Che il debitore ammazzi il suo strozzino ha un senso ma solo dopo che si sia sincerato che quest’ultimo non tenga un diario dove scrive “Se mi succede la tal cosa, la colpa è del mio debitore, l’illustrissimo Tal de’ Tali”.
I problemi del mondo non si risolvono con i pregiudizi a favore o contro la violenza. La guerra non è certo “l’igiene del mondo” teorizzata da Marinetti. Ma neanche qualcosa che si possa escludere dalla realtà, come ha preteso di fare la Costituzione italiana. È, a volte, la più triste delle necessità.

Ciò ci riporta all’attualità. È un fatto che il mondo occidentale sia attaccato da un gruppo di finanzieri che hanno scatenato una pandemia al precipuo scopo di creare un disastro economico che giustifichi tra qualche tempo espropri di massa, con la benedizione di Papa Francesco che si è premurato di annunziare urbi et orbi che “la proprietà privata non è intoccabile” e con Conte che, durante l’ennesima televendita, ci ha fatto sapere che se il lockdown ci sarà, “dipenderà dal comportamento degli italiani”.
Parole pericolosissime che suonano come minacce ai diritti sociali e ai beni degli italiani e che invece vedono l’entusiastico plauso di rincoglioniti che poi, se ne potrà stare certi, quando le cose appariranno nella loro più solare evidenza, faranno a gara nel dire che loro avevano capito tutto sin dal principio o che non potevano sapere.
Di fronte ad un regime che sta facendo a brani la democrazia, la libertà, il benessere e la sicurezza degli italiani, la risposta può essere solo una. L’uso della forza. E’ in base a questo elementare principio che si è avuta la Resistenza, che si è avuta la Denazificazione tedesca. E li cito non perchè io apprezzi i cosiddetti Liberatori – tutt’altro – ma perchè costoro sembrano non capire che tutti i beni di cui hanno goduto e di cui presto non godranno più, sono figli di una lotta, di un conflitto. Una visione ben diversa dal propinato arcobalenato e petaloso.

Naturalmente non si fa di tutta l’erba un fascio. La violenza non è sempre buona violenza. Le rivoluzioni non sempre sono buone rivoluzioni. E l’uso di un’arma da fuoco è giustificata contro un potenziale assassino, non contro l’automobilista idiota che ci sorpassa a destra.
Ma la totale e dichiarata esclusione del ricorso alle armi rende più probabile l’attacco del nemico; mentre se si è in grado di minacciare una risposta devastante, è più probabile che non si sia costretti a realizzare la minaccia. E’ in nome di questo principio che i romani dicevano: “si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace, prepara la guerra.
A volte la situazione somiglia ad un caso di gangrena diabetica. Chi accetta di farsi tagliare due dita del piede, forse salva il piede. Ma se esita, magari rischia di doversi tagliare la gamba. Il problema è solo quando operare l’amputazione, non l’amputazione in sè che purtroppo, a volte, è inevitabile.
L’unico discrimine della violenza è la valutazione della realtà. Sapere che cosa convenga fare. Chi uccidere e come. Come reagire alle conseguenze di un’azione. Cosa si costruisce al posto di ciò che si decide (dal latino “De caedere”, tagliare via) di abbattere.
Senza mai farsi guidare da alcuno scrupolo se non la realizzazione di un guadagno concreto, a lungo termine o più semplicemente la difesa di se stessi.
Principi ovvi ed evidenti, eppure resi perigliosi dalla minaccia della Morale Internazionale.

FRANCO MARINO

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