Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

L’EDITORIALE – SARÀ IUS SOLI – È TROPPO TARDI PER TORNARE INDIETRO (di Matteo Fais)

Di fronte a me c’era questa famiglia allargata di filippini. Quando dico famiglia allargata intendo dire che erano più nuclei famigliari conviventi sotto lo stesso tetto. Anziani e piccini condividevano una casa, come fu anche in Italia fino a oltre il dopoguerra, prima che i vecchi diventassero un peso da scaricare in qualche ospizio per levarseli dalle palle. Solo, la dimora non era certo grande come uno di quei casali del Nord o del Centro, ma un modesto appartamento in centro, adatto al massimo a quattro persone.

Stavamo seduti a parlare – o, almeno, a cercare di comunicare, “perché comunicare si può e si deve”, come dice Primo Levi in I sommersi e i salvati –, mentre tra di noi scorrazzava felice e incurante dei nostri discorsi una bimba di circa due anni, figlia di una delle due coppie presenti nella casa. Giocava e faceva casino, proprio come tutti gli altri bambini. Era dolce, carina, insomma, una scricciola come tante. Non potevi fare a meno di considerarla, anche perché faceva di tutto per essere notata. Sennonché, ho chiesto al nonno: “Ma la ragazzina è nata qui?”. “Made in Italy, made in Italy”, ha risposto lui, con quel suo accento buffo e l’aria bonacciona, ridacchiando contento.

Già, mi sono detto osservandola, è nata qui, ha vissuto qui e non ha neppure mai visto le Filippine, diversamente dagli altri. Cristo santo, ho pensato, è italiana come me. E, purtroppo, è proprio così: quella bambina tra qualche anno parlerà italiano con accento sardo e forse, ma solo forse, il filippino. Avrà amici italiani, magari un fidanzato italiano e, chissà, potrebbe essere anche che studi Medicina un giorno, o – follia delle follie – Filosofia, proprio come me.

“Alla fine, vedrai”, mi ha detto mio padre, quando abbiamo lasciato la casa degli stranieri, “non potranno negarle la cittadinanza. Una volta che li hai fatti entrare, cosa fai, dopo diciotto anni, li sbatti fuori? Diventeranno italiani, ormai è impossibile il contrario”. Ne sono convinto anch’io.

Sono andato anche alla festa per il battesimo della bambina. Non potete immaginare la sensazione di trovarsi in mezzo a più di duecento persone, tutte con caratteristiche somatiche diverse dalle tue, che parlano un’altra lingua. Io e gli altri tre italiani presenti siamo stati messi in un tavolo a parte, al centro della sala, e, mentre tutti dovevano andare a farsi riempire il piatto, noi venivamo serviti da loro.

Direte voi: “e allora, cosa non ti quadra? Ti hanno trattato con i guanti”. Non proprio. Noi italiani, lì, eravamo gli stranieri, i non integrati, gli esuli in casa nostra. Ci tenevano in palmo di mano, ma solo per conservare una distanza che in fondo valeva soprattutto per loro. Io lo sentivo che quello non era un rapporto alla pari. Avvertivo di essere considerato un diverso.

E, del resto, non capisco in che altro modo potrebbero percepirmi. Loro sono come gli schiavi di colore in America, nel ’700, solo che sono venuti con le loro gambe invece che essere stati acquistati in un altro continente, o rapiti. Anche i neri delle piantagioni chiamavano il loro aguzzino “Padrone”, ma volentieri gli avrebbero tranciato il collo con un machete.

A ogni modo, c’è stata una cosa che mi ha particolarmente colpito, osservandoli, durante quei momenti di svago: quella gente era felice di esistere, malgrado la propria condizione di povertà e marginalità. Infatti, tutti quanti avevano figli, erano sposati o pronti a convolare a nozze. Guardandoli, mi è tornata alla mente mia nonna, prima di morire, quando mi confidò di quanto si fosse sentita folle, col senno del poi, a mettere al mondo mio padre, soprattutto in piena guerra. “Il fatto, figlio mio, è che allora, devi capire, noi eravamo come animali, senza consapevolezza”. Forte solo della sua licenza elementare, la vecchia donna aveva guadagnato la triste consapevolezza dell’inutilità della vita che sembrava proprio non toccare i miei amici filippini.

Sì, alla fine, avranno lo ius soli. La Sinistra lo sapeva bene, quando cominciò a farli entrare in quantità, e noi non abbiamo fatto tutto il possibile a suo tempo per tutelarci. Siamo rimasti a guardare e subire – la propaganda, fin dal periodo scolastico, ha portato i giovani ad accettare la cosa come normale. Adesso, ci siamo e non si potrà tornare indietro. Quella parte politica è stata lungimirante facendo tutto con gradualità, fino a condurci al punto in cui non potremo che accettare lo stato di cose esistenti. Naturalmente, loro sperano di ricevere il voto dei nuovi italiani e così consolidare il loro potere. E ce la faranno.

Tra qualche decennio, gli italiani come li abbiamo conosciuti non esisteranno più. Ci fonderemo in tutto unico, amorfo e senza distinzioni. Si arriverà ala grottesca scena del cinese che parla con accento romanaccio. Il tutto sarà ridicolo perché non avverrà alcun arricchimento, ma una fusione che sarà confusione, assimilazione insensata. Noi non saremo più noi e loro non saranno più cinesi, pakistani, nigeriani. Sarà la notte in cui tutte le vacche sono nere. Diventeremo una non-cultura – il corrispettivo antropologico dei non-luoghi che già ci circondano – frutto di gente senza più identità, indistinguibile. Lo ius soli sarà la pietra che porremo sopra la nostra fossa.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. A ottobre, sarà nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.

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