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L’EDITORIALE – CENT’ANNI DI BUKOWSKI – UN GRANDE ROVINATO DALLA MITOLOGIZZAZIONE (di Matteo Fais)

Non dimenticherò mai quel momento. Certi libri ti guidano a sé come il sorriso della ragazza, dall’altra parte del locale, ti porta ad alzarti e andarle incontro senza avere la minima cognizione di ciò che accadrà tra voi. 

È più o meno così che ho scoperto Bukowski, in una libreria che ormai ha chiuso. Era semplicemente lì. Non sapevo niente di lui, ma quel titolo mi colpì come un cazzotto: Storie di ordinaria follia. La copertina era tutto un programma e io ero in cerca di emozioni, per evitare di morire di tristezza adolescenziale. 

Tornai a casa e feci letteralmente l’amore con quel libro, come in precedenza, da bambino, mi era successo solo con Il vecchio e il mare di Hemingway. Era proprio ciò che cercavo. Non scorderò mai l’incipit del primo racconto, La ragazza più bella della città: “Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo”. Fantastico! Diretto, senza fronzoli, secco e rombante come uno sparo. Veloce, velocissimo. Le parole come macchine in corsa lungo la notte, sull’autostrada. Porca puttana, mi dissi, che stile. Devo a Bukowski se cominciai ad amare gli americani. 

Ma l’autore di Post Office, non è solo questo. È anche poetico – ancora di più nella prosa –, ma di una poesia che sembra non prendersi mai troppo sul serio (“Dovevo muovermi. Adesso o mai più. Settembre era alle porte. Le cornacchie erano a consiglio. Il sole sanguinava”). Divertentissimo! Come quella sua lirica che inizia con “Volevo essere un grande poeta, ma al pomeriggio casco dal sonno”. In Italia, sarebbe praticamente impossibile leggere qualcosa di simile, o se non altro raro. L’America è l’approdo sicuro per chi cerca una poesia che non debba necessariamente prendere ai coglioni.

Più di tutto, però, Bukowski ha lasciato un insegnamento imprescindibile a ogni scrittore: qualsiasi vita può diventare materia letteraria. Può essere quella di uno svogliato impiegato delle poste, di un operaio senza né arte né parte. E non solo, come pensano molti, mutuando una concezione da filmaccio americano, quella fatta di improvvisi rivolgimenti e avventure fuori dal comune – per quanto la sua, almeno in una certa misura, lo sia stata. E, ancora di più, lo scrittore ci ha restituito il senso e l’importanza di parlare unicamente di ciò che si conosce e si è, almeno in una buona misura, sperimentato sulla propria pelle. Si può usare l’immaginazione parlando di una realtà che ci appartiene, ma tendenzialmente si dicono solo stronzate se ci si arroga il diritto di dare la parola a mondi e personaggi da noi troppo distanti. Lui non lo fece mai.

Insomma, Bukowski è stato un grande, forse non il migliore, ma certo un unicum nella storia della letteratura mondiale. Peccato solo che, alla fine, abbiano trasformato anche lui in una macchina per fare soldi e il suo nome in un brand, persino da morto. Ora, ogni anno c’è un presunto suo “nuovo” libro messo su con interviste, fogli, fogliettini e altri scarti di brillantezza. Ma il mercato non si arrende neppure al cospetto della morte e, se fosse commerciabile, venderebbe pure il cadavere fatto a pezzi, come ex voto e reliquie.

Chi ha un po’ di buonsenso e voglia di scoprire, a ogni modo, abbandoni la soddisfazione nostalgica, limitandosi a constatare il decesso. Ci sono anche altri scrittori e un nuovo mondo da narrare. Non restate in estatica contemplazione di una lapide.

Matteo Fais 

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