Il Detonatore

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IL CASO BATTELLI: IL PROBLEMA NON E’ NON ESSERE LAUREATI MA ESSERE SOMARI (di Franco Marino)

Il Rubicone è solo un corso d’acqua, divenuto famoso perchè Cesare, varcandolo, si pose in contrasto col Senato, accettando l’alea di una guerra civile. E commentandola, per l’appunto, con l’immortale “alea iacta est”, il dado è tratto. L’episodio divenne così famoso che il Rubicone è divenuto il simbolo di una decisione molto sofferta, gravida di conseguenze negative.
Ognuno di noi incontra il suo Rubicone. Meglio le certezze consolidate di un matrimonio noioso ma sicuro, con una persona magari poco attraente ma affidabile o il brivido di un amore così intenso da ricordare le grandi passioni adolescenziali, che però può finire da un momento all’altro? Meglio il posto fisso e la sua sicurezza al prezzo di una noia mortale oppure la scelta della libera professione col rischio di mantenersi ad una pericolosa equidistanza di insicurezza tra la ricchezza e le mense della Caritas? Nel caso del Rubicone, meglio dichiarare guerra al Senato o contentarsi del potere fin qui raggiunto? E, dilemma che affligge chiunque si dolga per le sorti della sua patria, meglio dichiarare guerra allo Stato, correndo il rischio di finire all’ergastolo o sotto terra oppure rassegnarsi ad una vita di triste sopravvivenza ma magari lunga e lontano dalla morte e dalla galera?
E potremmo proseguire all’infinito.

Dal momento che nessuna di queste decisioni è esente da rischi – un’amante alla lunga può rivelarsi molto più affidabile della moglie affidabile (che può trovare un altro o diventare un’arpia), chi occupa un posto fisso può lo stesso essere licenziato come ci insegna la Grecia, Cesare poteva anche perdere la guerra e lo Stato può lo stesso farti fuori anche se non sei un rivoluzionario – decidere se varcare il Rubicone è qualcosa che può destabilizzare anche un uomo molto forte di carattere.
Decidere, peraltro, è un verbo tremendo. Non a caso la sua etimologia latina rimanda a “tagliar via”. Decidere è amputarsi dell’altra metà di futuro, rinunziare ad una possibilità in favore di un’altra, magari per dover poi rimpiangere ciò che si è condannato all’inesistenza. Come non bastasse, spesso decidere significa cambiare anche la vita di altri. Perché non si è mai del tutto sicuri di star facendo la cosa giusta, per sé e per altri. Qualcuno ha detto: “Decidi e pentiti”, cioè “Decidi e metti in conto che ti pentirai della tua decisione”. L’invito implica che, anche prendendo la decisione opposta, ci si sarebbe pentiti. Cosa che dopo tutto potrebbe anche essere consolante.
Sta di fatto che nessun testo, giuridico, medico, finanziario, nessun prestigioso professore, può dirci se siamo nelle condizioni di varcare i tanti Rubicone che la vita ci presenta. Il Giulio Cesare che varca il fiume non è laureato in politologia, è semplicemente un uomo così convinto della propria buona sorte, da giocarsi la vita a dadi ed entrare nella storia. Il titolo di studio non fa, di un uomo, un grande uomo. E, di conseguenza, di un politico, un grande politico. Al massimo ne fa un grande tecnico. Che saprebbe come costruire un ospedale se ha competenze come medico o amministratore nel ramo della sanità. Che saprebbe come far funzionare la macchina della giustizia se fosse un giurista. Ma non saprebbe certo SE costruire quell’ospedale e SE si debba riformare la giustizia. Capire di politica, difatti, ha a che fare con tantissime qualità tra le quali non c’è l’accumulo indiscriminato di abnormi quantità di sapere ma, semmai, la capacità di saperle leggere, di avere una competenza generale di alcuni importanti discipline e di saper praticare una sintesi dei dati di cui si dispone, appresi magari anche da autodidatti e che costituiscono certo anche un pezzo di cultura ma non tutta. E poi doti prettamente umane come l’intuito, il coraggio, il pragmatismo. E, last but not least, anche quella dose di fortuna che induceva Napoleone ad essere molto superstizioso, preferendo, secondo la pubblicistica “i generali fortunati a quelli bravi”.
A coloro che dispongono di conoscenze, di tecniche, spetta il ruolo di burocrati, di funzionari, di tecnici. Utilissimi, senz’altro, anzi fondamentali. Ma che rimangono comunque ad un gradino di subordinati rispetto a chi poi prenderà la decisione derivante da tali informazioni. Ragione per cui, dietro tutti i leader politici che conosciamo, spesso vi sono fittissime commissioni di esperti. E la stoffa di un grande politico sta nella capacità di non farsi trascinare da queste informazioni e di farne l’uso più utile al proprio potere, possibilmente coniugandolo al bene della nazione.

E’ con questo spirito che assisto alle discussioni sulla carenza di titoli di studio che affliggerebbe la classe politica di oggi e dunque le ironie sul neoministro Battelli, reo di avere solo la terza media. Chiarisco al riguardo il punto: non ripongo alcuna fiducia in lui come non ne ho mai riposto in nessuno degli attuali ministri, da Di Maio alla Bellanova, passando per la Azzolina e in generale in nessuno dei tanti politici cui oggi viene contestato uno scarno corredo di studi. Ma al tempo stesso non dimentico il curriculum di autentici giganti ognuno nel proprio campo. Craxi, Mussolini, Giuliano Ferrara, Enrico Mentana, Benedetto Croce, fermi alla maturità classica, e via proseguendo attraverso Zuckerberg, Steve Jobs, Bill Gates, capi di veri e propri imperi dell’informatica, mai laureati. Sino ad arrivare al caso di Sallusti, la cui interruzione degli studi alla terza media non gli ha impedito di diventare un apprezzato giornalista. E non dimentichiamo l’elettricista Lech Walesa e Carlo Magno, semianalfabeti. Questi signori si distinguono dal resto degli esseri umani per altre doti quali il senso del tempo, dello spazio, della realtà, la logica, che li portano a compiere le imprese in cui sono riusciti e, poichè come ci insegna Machiavelli, nessuna vittoria o sconfitta sfugge agli influssi della fortuna, hanno avuto anche la buona sorte dalla loro parte, senza che questa nulla sottragga alla loro grandezza.
Premettendo, en passant, che le università sono divenute un tale coacervo di pagliaccismo, poraccitudine e crassa ignoranza che si manifestano attraverso forme più o meno smaccate di nepotismo e corruttela e che dunque qualsiasi fesso disposto a sgobbare quel tanto che basta può laurearsi, vedendosi consegnare un inutile titolo di “dottore” che gli serve solo per atteggiarsi a “gallo ncopp ‘a munnezza”, ebbene questo non significa che il concetto di laurearsi non sia importante, anzi. Occorre semplicemente tener presente che la laurea non è uno status symbol da rinfacciare a chi non ce l’ha nè tantomeno la garanzia di un’intelligenza universale ma semplicemente un attestato – di variabile credibilità – che testimonia la competenza tecnica nel settore prescelto dallo studente.
Il laureato, dicevamo, sa come si fa una cosa ma sarà SOLO il grande politico a sapere SE SI DEVE FARE O MENO quella cosa, in virtù delle proprie doti personali. Che non si imparano a scuola o su cumuli di libri.

Così, il problema dei ministri di questo governo non è quello di non essere laureati ma di non avere spessore. E di essere, dunque, semplici concorrenti di quel nauseabondo reality che è divenuta la politica ai tempi dell’abolizione delle preferenze: un luogo dove vince non chi è più bravo ma chi incrocia la narrazione giusta al momento giusto.
Anche laureato, Di Maio rimarrebbe un somaro. E con lui, la Bellanova, la Azzolina e tutto il campionario di distruttori che il governo ha scelto per svendere il paese. Che lo sia anche Battelli è tutto da vedere e l’uomo di buonsenso cerca di avere meno pregiudizi possibile.
Ma certo, i precedenti e il vivaio di provenienza non inducono all’ottimismo.

FRANCO MARINO

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