Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

IL VIAGGIO NEL TEMPO (di Letizia Dimartino)

INVITO ALLA LETTURA 

di Matteo Fais

Ed ecco, è già il pallido,/ sepolcrale autunno,/ quando pur ieri imperava/ la rigogliosa quasi eterna estate.

Cardarelli, Tempo che muta

La tragedia dei ricordi sta nella loro costante lontananza – troppo presente tra noi e loro. Sembra quasi che ciò che è stato non sia potuto essere, se quello che ci circonda è così diverso, distante. Eppure, a un certo punto, la vita si arresta nel suo vorticare e rimane solo quel cantuccio in cui ritirarsi, per non cedere alla morte. 

Nel suo viaggio nel tempo, Letizia Dimartino restituisce il senso lacerante di ciò che resta, la dolcezza e il fardello di chi oramai guarda solo indietro e nel passato lascia naufragare placidamente il suo futuro.

I TESTI DI LETIZIA DI MARTINO

Quando con la Freccia del Sud arrivavamo a Lodi eravamo in subbuglio. Si scendevano le valigie, ci si metteva in fila sul corridoio parlando a bassa voce, i suoni erano diversi. Si capiva perché avevamo attraversato tutta l’Italia, senza dormire. Ad ogni stazione: Firenze, Bologna, quel suono metallico nella notte. Pensare che scendendo avrei visto le città. Pensare che Milano era ormai vicina. Il treno si immetteva sotto le volte di ferro scuro. Il battito del cuore. Quel sospiro di gioia. La stanchezza che scompare. La fine del viaggio che sembra quello della vita. I lunghi binari, gli odori, la scalinata di marmo con i barboni a dormire. La piazza antistante. Adesso mio figlio mi dice che tutto nei treni è cambiato. Mi parla dei prodigi dell’ingegneria. Taccio. Ormai ho solo ricordi e nessun presente

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La vicina di casa metteva un disco di Peppino di Capri e io costruivo una capanna sul balcone. Coperte, lenzuola e tappeti. Poi il gatto siamese e folle dagli occhi di pietra azzurra, il geranio che perdeva petali, il venditore di ricotte calde, un Fortunello morbido. I tigli lungo la strada, il profumo delle prime rose e quel vestitello fiorato dalle maniche corte da mettere per primo, col brivido dell’inverno ancora vicino. Mi addormentavo, un libro di Polly Anna alla festa, mio padre che lucidava la sua Alfa Romeo celeste, il viaggio che avremmo fatto per l’Italia che cresceva e splendeva nelle sere calme, il mare i luoghi silenziosi le chiese i rosoni i crocifissi lignei gli autogrill luminosi e le sue grida lungo le curve della Calabria, quando perdevamo la costa e tutto si faceva verde cupo. Mia madre cantava, io volevo tornare nella mia capanna, sul cuscino di velluto. I libri e i libri. Ma fu tutto e io sono ancora qui

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La domenica facevamo una gita al mare, per mangiare il pesce in un baracchino colorato di verde. Oppure mi portavano a Siracusa a vedere l’acquario di Ortigia, o a Gela dove c’era un castello contornato da prati e papaveri e sabbia fina. Il pomeriggio vedevamo, sedute sul pavimento, l’orso Yoghi in TV nelle stanze dai mobili svedesi,  più tardi cenavamo all’hotel Mediterraneo, alla fine servivano l’arancia al maraschino. C’era la televisione accesa e Rita Pavone faceva Gianburrasca e noi eravamo felici. La sera nel letto azzurro pensavo al lunedì a scuola e mi si stringeva il cuore, ma avevo amiche carissime e tutto sembrava più facile. Mettevo un cerchietto ai capelli, mi ammalavo di continuo e le occhiaie erano profonde. Ero una piuma, una colomba

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