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LA RECENSIONE – CARLA VIGANÒ, “RITOCCHI MARGINALI”: POEMA DELLA METROPOLI DI SOLITUDINE ED EMPATIA (di Andrea Italiano)

L’ultimo libro di Carla Viganò, Ritocchi Marginali (Controluna Edizioni, 2019), va riletto più volte prima di giungere a un pensiero conclusivo su di esso. Perché – come sottolinea giustamente Giuseppe Cerbino nella Prefazionela poesia della Viganò non è affatto facile. Non si perde in smancerie, non adula il lettore, non scade mai nel banale, nel poetese. È semmai una lirica che esige riflessione, calma, attenzione. Ciò è frutto di un linguaggio elegante e senza dubbio leggibile, orchestrato in maniera sincopata e densa, quasi una forma conchiusa e monolitica che si fa penetrare per stadi successivi di lettura. È frutto di studio, controllo, pudore. È poesia “classica”, che si aggira su livelli linguistici di medietas e che si regge su un’impostazione strutturale novecentesca, con aperture però a un certo tipo di sperimentalismo per via dell’assenza di punteggiatura e per un verso che si rompe spesso irregolare, seguendo una linea mentale imprevedibile. 

La scrittrice in questione si inserisce nell’alveo della “linea lombarda”, ma in lei il dato oggettivo e realistico dei maestri è spesso sostituito da un maggiore scavo introspettivo e psicologico. Ritocchi marginali è una raccolta che ha al suo interno due protagonisti: Milano e Carla, che immaginiamo muoversi e proiettarsi, riflettersi e allontanarsi. Ecco che allora il testo può essere inteso come il poema di un rapporto, tra l’uomo e la sua proiezione più compiuta: la città. Una storia faticosa e contraddittoria, una relazione che parte da un rapporto di uno a uno ma poi, per forza di cose, è costretto ad allargarsi ai tanti: da ciò nasce il dissidio, la contraddittorietà dell’amore di Carla Viganò con la metropoli. Contraddittorietà che non sfocia mai nei confronti paratattici moralistici tipici del “loro/io”, ma che si esplica in una tensione di fusione con il corpo tutto della città, dai passanti distratti dalla bellezza del Duomo per la troppa fretta, alla ragazzina che balla hip-hop nel metrò, fino agli operai che negli anni Sessanta vivevano esclusivamente di casa-lavoro.

Milano è, in Italia, la città per antonomasia. Luogo raggiunto nel corso del Novecento da milioni di italiani che vi si sono trasferiti da ogni parte facendola diventare simbolo di incontri, di speranze, ma anche di alienazione e fallimenti. Milano è stata la culla di ogni avanguardia, città sempre in movimento e in continuo fermento sperimentativo. Per questo Milano è complessa, multistrato, luogo fisico e luogo dell’anima, ma anche bella-brutta, benedetta-maledetta, incompresa e insensibile. Carla legge tutto ciò alla luce del suo modo di vivere e di sentire (“Questo colore giallo di Milano/ filo leggero/ in controluce sulla specchiera/ spiove/ inclinato da un teorema./ Io che per avere un po’ di sale/ ho chiesto alla mia città il turchese/ del cielo/ nella solita pozza mi ritrovo/ nel luogo di passaggio”).

Ma la città – e anche in questo essa è paradigmatica – è spesso dominata dall’invisibilità. La condizione umana dirada sovente in maniera irreversibile, così che le maglie del vivere comunitario tendono a isolare ognuno in una bolla nella quale nulla penetra. La città è dominata dalla fretta, dalla corsa, dall’indifferenza. È a questo punto che il dissidio della poetessa-sensitiva si apre: lei, nella metropoli, porta elementi valoriali “altri”, cioè diversi da quelli che abbiamo definito dell’invisibilità (“Non comprerò niente oggi/ perché non voglio ingrassare, specchiarmi/ provare, assolvermi, pentirmi/ non comprerò nemmeno un lavoro un saluto la resurrezione/ e per darmi dei valori/ scenderò dalle scale mobili/ come sempre/ con la svariata umanità di fianco…”). Milano (la città amata) e Carla Viganò. Oppure Milano contro Carla Viganò. Questo in fondo è il filo conduttore di tutto il libro.

Ricorre, poi, più volte la figura del “poeta”. Questo essere che sembra caricato di una valenza salvifica, forse perché custode di un bene ormai completamente inutile come la poesia, in grado di ribaltarle l’umore, di salvarla dal vorticoso movimento della routine annullante della quotidianità (“Ospiterei un poeta se lasciasse sui muri/ in graffio dell’intonaco un futile sopravvissuto/ se tradirlo fosse un verso/ se invece di dire grazie mettesse se stesso in centro/ per raccontarti della sua donna/ se togliendomi le rughe lasciasse/ che qualcosa cadendo di mano si trasformi in fiore/ in una casa gialla”).

Carla Viganò ha musicalità propria e, soprattutto, un profondo rispetto della musica insita nella lirica. La sua poesia è malinconica e sussurrata. Ma non è poesia “effemminata”. È parca di figure retoriche e di tematiche afferenti ai “problemi di cuore”. Fa, semmai, testimonianza di qualcosa partendo da qualcuno: sé stessi. Per questo, ella tesse abiti in cui – da uno squarcio spesso impercettibile – si intravede una ferita aperta, un dolore proprio e altrui che viene a galla, sorprendendoci, confermandoci che la poesia deve essere dal mio al tuo, dal mio al nostro.

Andrea Italiano

Editing Matteo Fais

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