Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

L’EDITORIALE – “IL COLIBRÌ” DI VERONESI È MEDIOCRE, COME TUTTA LA CULTURA ITALIANA SOSPESA TRA VOLO E FAZIO

Anche quest’anno, allo Strega, non c’è molto da festeggiare. In finale ci sono andate le solite case editrici predominanti, più la carità fatta a Fandango come rappresentante dei piccoli – che, poi, proprio piccolissimo non è. Come da pronostico, e, soprattutto, dopo decine e decine di recensioni adoranti da parte della stampa “buona” e “virtuosa” di “Repubblica”, “Corriere” e compagnia cantante, che lo hanno spinto manco fosse Hemingway, ecco Sandro Veronesi con Il Colibrì a vincere il secondo Strega della sua carriera. E passi Caos Calmo, anche se non era un capolavoro, ma qualche sentimento lo tirava fuori. Ma Il Colibrì è veramente uno dei libri più insulsi e scontati degli ultimi anni. Sembra il soggetto di una fiction Rai. Un autentico prodotto della medietà culturale italiana. Questa medietà la chiamerei fabietà, intendendo con questo sostantivo la sonnolenza intellettuale che produce il salotto di Fabio Fazio, dove le parole e le idee sono sterilizzate come in un ospedale del politicamente corretto, o la messa nero su bianco dell’ovvietà, come in un libro di Fabio Volo. Spezzo comunque una lancia per Volo, che almeno non vince Campiello, Bancarella o, appunto, Strega, e si limita a fare intrattenimento sentimentale senza sentirsi un genio.

Credo che nell’attuale panorama di orribili libri italiani spacciati per opere d’arte, quello di Veronesi sia solo un romanzo di accettabile leggibilità. Ma nulla di più. Apprezzo solo il tentativo, sebbene non riuscito, di scrivere un romanzo borghese, stante l’obiettiva difficoltà di un’opera ambientata in quel contesto, in Italia. La borghesia, sia Gramsci che Pasolini negavano persino che esistesse in Italia, perlomeno nei termini degli altri paesi europei. Quindi scrivere di una cosa che forse non esiste realmente è almeno un esercizio.  Detto questo, è un libro senza particolari slanci, né intellettuali, né culturali, né sociali.

La copertina del testo vincitore

 L’incipit è molto debole, così irrilevante che l’ho dimenticato. Anche il finale è un già cotto e digerito, piuttosto sterile. Da questo momento faccio spoiler, quindi chi vuole leggere il libro non vada oltre. Il fatto che tutta la vita (ovviamente dolorosa) del protagonista trovi giustificazione finale nella nascita e nello sviluppo di una bambina carina multietnica, dal nome esotico, dal padre sconosciuto, chiamata “uomo del futuro”, in omaggio alle odierne teorie post femministe, non mi dice nulla. Che poi la fine sia un’eutanasia celebrata con un contorno di protagonisti del libro o familiari, in un incontro collettivo alla Muccino, mi entusiasma ancora meno. Manca Ricky Tognazzi che suona alla festa una canzone anni sessanta e siamo nel pieno dei film sulle famiglie allargate. E che non manchi, poi, il badante straniero gay che inocula il liquido salvifico mortale. Il finale è veramente già visto in decine di film. Infatti, l’ho letto in pochissimo tempo, perché mi annoiava. Nel mezzo qualche spunto carino, tipo “lo psicanalista passivo”, che lasciava intendere come la mania di andare tutti in psicanalisi incida negativamente sulle coppie. Quello sarebbe stato un tema su cui spingere di più. L’unica cosa che mi ha interessato del libro. Ma era politicamente troppo scorretto parlar male di una categoria – orrore, per un professionista del politically correct! Veronesi allora rimedia un po’ forzatamente facendo diventare lo psicanalista addirittura il deus ex machina del libro e miglior amico, di fatto, del protagonista.

Poco approfondito il personaggio della sorella suicida, sbiadito, dimenticabile, che doveva essere ma non risulta fondamentale. Discreta la narrazione della coppia “sbagliata” dei genitori. Scritte piuttosto male invece le lettere tra i due amanti che non consumano mai. Il brutto di un cosiddetto lettore forte come me è quello di aver gustato altri libri stranieri che hanno affrontato stesse tematiche o stili. Avendo letto Che tu sia per me il coltello di Grossman, romanzo epistolare delicatissimo, non ho potuto non fare paragoni impietosi. Le lettere, in Colibrì, sono scritte con lo stesso stile. Però non si vede la differenza maschio/femmina e si nota che la mano è la stessa. Fossi stato in lui, quelle di Luisa le avrei fatte scrivere a una donna.

Tratteggiato appena, infine, è il personaggio del fratello/antagonista. Scritto con la mano sinistra. Un po’ buttato lì, come buttato lì è il cosiddetto triangolo con la donna vagheggiata ma non amata carnalmente. Più interessante è l’amico jettatore, anche se già visto e rivisto. Adele, la bambina che crede di avere un filo legato alla schiena, dovrebbe essere il centro di tutto e forse lo è, ma, prima della sua morte repentina, mi delude. La sua decisione pseudomoderna di fare un figlio con chi sa chi è anche esso un déjà vu di centinaia di film americani.

Infine, non so che insegnamento/ messaggio mi lasci il libro. Che la società verso cui stiamo andando, senza padri e con nonni che fanno i padri, è bellissima? Che l’eutanasia è bellissima? Che è meglio morire bene che vivere bene, come suggerisce in una lettera l’amante platonica, traendo spunto da documenti atzechi, quindi esotici, quindi di per sé giusti e politicamente corretti? Basta infatti che non sia un pensiero occidentale, per il quale ora c’è uno schifato dissenso – anche perché tutti i pensatori occidentali sono a rischio di smobilitazione dai monumenti. Poi c’è un elenco di mobili, che dovrebbe essere la grande idea creativa, stile Ikea, del narratore, su cui stendo un velo pietoso.

Un libro mortifero, con disgrazie che conducono alla disgrazia massima, l’eutanasia, vissuta come un lieto fine. Non migliorerà né peggiorerà la mia vita. Per riuscire nell’impresa di scrivere un grande romanzo borghese, all’autore manca completamente il talento di un Houellebecq o di un Franzen. E il risultato è quello di un testo al livello di De Carlo o di un Paolo Giordano meno acerbo. Se voleva produrre invece la storia di un uomo qualunque, non è stato capace di elevare la mediocrità ad opera d’arte. Un libro appena sufficiente, simbolo della infima Italia culturale di oggi. Nulla a che vedere con la grande narrativa francese o americana, e purtroppo anche di gran parte di quella del resto d’Europa. Un abisso dietro. Ci sono storie migliori in Italia, basta scavare, liberarsi di quelle scritte con pensieri e frasi fatte per non offendere nessuno, che vanno controcorrente, che aprono orizzonti veramente sconosciuti.  Quelli che non leggerete mai, perché non pubblicizzati da chi ha il potere dei media.

E poi siate sinceri: ma non siete stufi dello scrittore politicamente corretto dei salotti virtuosi? È di una noia deprimente, non scatena nulla, non provoca catarsi, non provoca niente. In medio non stat virtus. La grande letteratura deve sconvolgere, squarciare la mente. E, comunque, dare due volte lo Strega a Veronesi – anche se c’è di peggio in Italia – è come dare due volte il pallone d’oro a un buon mediano.

Giusy Cafari Panico

editing Matteo Fais

2 commenti su “L’EDITORIALE – “IL COLIBRÌ” DI VERONESI È MEDIOCRE, COME TUTTA LA CULTURA ITALIANA SOSPESA TRA VOLO E FAZIO

  1. In effetti il politicamente corretto, apoteosi della banalità e di un falso ideale di libertà sociale e individuale, ha stufato. Non solo risulta stucchevole, ma decisamente sofistico e di conseguenza menzognero. Ma la cosa più irritante è l’ imposizione del politicamente corretto, e il tritacarne mediatico in cui finiscono coloro i quali dissentono.
    Un antico adagio druidico così recita:
    La verità e un fardello troppo grande per poter essere contenuta in una sola tasca, e non esistono tasche in grado di contenerla tutta.

  2. Me lo sono fatta regalare a Natale, dopo il tam tam televisivo, le interviste, le recensioni. Semplicemente non mi ė piaciuto. Mi ha deluso perché non mi ha lasciato nulla. Banale, noioso. Sembrava costruito a tavolino. Ma uno scrittore non dovrebbe sentire l’esigenza di scrivere? Ora mi sono stupita anche del fatto che abbia vinto il premio Strega, o forse no…

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