Il Detonatore

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“SUITE ETNAPOLIS” DI ANTONIO LANZA – POESIA CIVILE DAL SUPERMERCATO

Nella mia città costruiranno un nuovo centro commerciale. L’ho sentito dire alla televisione. Un politico del luogo affermava soddisfatto che il progetto del mega centro, fermo dal 2002, vedrà finalmente la luce, dopo venti anni. Ho subito pensato: che immonda cazzata, l’ennesima! Ne hanno aperti nel frattempo altri tre, uno più fallimentare dell’altro.

I centri commerciali! Queste tane per allegri ciccioni pre-suicidio, gabbie per schiavi desperados. Altrove chiudono, qui aprono. Ogni volta che ci vado, il mio pensiero corre immediatamente al poemetto Suite Etnapolis (Interlinea, 2019) di Antonio Lanza, nato a Paternò, in provincia di Catania, nel 1981. Sicuramente, il miglior libro di poesia edito in Italia negli ultimi anni. Un’opera senza fronzoli, trucchi, finzioni. Un mix inestricabile di scrittura e vita che prende alla gola il lettore e non lo fa respirare. Un testo “politico”, così è stato definito.

Il poeta Antonio Lanza

Etnapolis, si diceva. Su Wikipedia è descritto come: “un centro commerciale polifunzionale, progettato dell’architetto romano Massimiliano Fuksas e inaugurato il 23 novembre 2005. Si trova nel territorio di Belpasso, nei pressi di Paternò, lungo la SS 121 Catania-Paternò a cui è collegato con uno svincolo specifico. È definito in vari modi, tra cui Città del commercio e Città del Tempo Ritrovato. È il quinto Centro Commerciale più grande d’Italia, si estende per oltre 1 km ed ha un’area di circa 105.000 m², contando oltre 130 negozi, un ipermercato Decò con 3.450 m² di area di vendita e 11 ristoranti”. Di questo, Antonio Lanza scrive: “Maschio e femmina Etnapolis, cazzo/ e buca Etnapolis, bussola e catena./ Mestruo della domenica operosa/ Etnapolis, mela e serpe dei Mcdrive/ a sera, spine e cardi la spesa/ nei carrelli, polvere Etnapolis/ di grattaevinci, nuvola a vuoto/ dell’euro. Arca e fogna Etnapolis…”.

Il poeta descrive meglio di chiunque altro l’essenza del centro commerciale, con le espressioni: “Balena spiaggiata”, “colonia penale”, “navicella spaziale”. Egli racconta poeticamente l’intreccio delle vite di sei “operai”, identificati e identificabili per il lavoro che svolgono (Laura di Lovable, Alfredo il barista, Daria la commessa, Samuele di Mondadori, Vanessa di Father e Son, Nuccio la guardia giurata), attraverso il dipanarsi della settimana tipo di ogni centro commerciale, da Domenica a Sabato.

Il poemetto dimostra come gli “operai” siano la vera linfa di tutto, il pasto senza il quale il mostro (il Moloch) non potrebbe vivere. Non sono i clienti, non è il denaro, non sono le merci che mandano avanti Etnapolis – e le tante Etnapolis del mondo –, bensì il sangue di chi vi lavora, la vita di tutti i sacerdoti-vittima che entrano la mattina ed escono la sera dedicandovisi completamente. “Seppellirmi viva per dodici ore/ le ore che avanzano/ straziarle a unghiate in faccia/ un giovedì che mi risucchia respiro/ e luce; per oggi, gentile ignara/ clientela/ sappiate che non ci sono, /esisto soltanto”, pensa Cinzia, un’altra lavoratrice.

Ma Suite Etnapolis non è un libro corale, non è il canto all’unisono dei suoi protagonisti, semmai è un libro-puzzle, un concept sostenuto da un forte pensiero unificante: si muore in questi maledetti luoghi di lavoro. Il testo è formato da cinque/sei/sette voci che il lavoro tiene distinte e separate, alienate e chiuse in sé stesse anche nei rari momenti di incontro al Bar “di Prestipino”, prima di entrare nei negozi. Voci che si presentano sul proscenio e recitano un “a parte”, ognuno per i fatti suoi. Voci solitarie e disperate che altro non possono fare perché altro non c’è. Ognuno parla del proprio abisso interiore che si specchia o è specchio del vuoto disumano ma colorato e musicale che lo circonda – la musica dagli altoparlanti non manca mai, ce lo ricorda pure Lanza. Forse in questo dato di fatto consiste la morte di ogni narrazione collettiva che depotenzia di qualsiasi epos retorico Suite Etnapolis, ma ne aumenta prepotentemente la veridicità.

Che lingua parlano queste voci solitarie? Quella scelta dal poeta è potente e colta, stratificata e duttile a seconda di chi la usa, foriera di rimandi ma soprattutto leggibile e riconoscibile. Tutta la cultura dell’autore (Ecclesiaste, Shakespeare, Sereni) è filtrata e setacciata al fine di essere voce della verità: Etnapolis è un carcere, un inferno dal quale non si esce, un manicomio di suoni, di musiche, di ferraglia stridente. Un lingua, dunque, non barocca e compiaciuta di verbose masturbazioni, ma spietata. È verso lirico essenziale e scarno, è prosa, è una serie varia di registri linguistici (anche e soprattutto meta o extra-poetici) che si intersecano nello stesso brano e pongono il poemetto dell’autore catanese come qualcosa che è dentro e già fuori dal post-moderno.

La copertina di Suite Etnapolis

Ecco che nel libro, a un certo punto, irrompono due elementi, uno “metafisico” e uno “criminale”. Elementi esterni che disturbano la litania delle vittime-sacerdoti e travolgono follemente la quotidiana, ripetitiva, adorazione del profitto, con la loro carica umanissima di paura e rientro nella realtà. Entrambi i disturbanti compaiono il Sabato, che guarda caso è il primo dei due giorni (Sabato e Domenica) in cui si manifesta incontenibile la follia del consumismo dei centri commerciali. Il Sabato mattina, infatti, all’apertura dei negozi, fa la sua apparizione un cervo che pascola libero (e misterioso) nei giardini del centro. La presenza di questo animale, rimando al mito di Ciparisso, sconvolge sia i lavoratori, che la dirigenza, similmente ai clienti di Etnapolis, i quali – ognuno per un motivo – cerca di darsi una spiegazione dell’accaduto. È l’irruzione dell’irrazionale nel razionalissimo mondo del profitto. Tutto si ferma, il commercio non esiste più, né la “conta del profitto”, solo interessa il fenomeno “sovrannaturale” che per qualche secondo si ammanta del ruolo proprio del sovrannaturale, cioè cambiare la vita.

Altro fatto che accade nello stesso giorno, e che chiude in “delirio” il poemetto (si veda la sovrapposizione vorticosa di lirica, prosa, poesia visiva/cancellature alla Emilio Isgrò, brani di interviste, di chat WhatsApp che ne caratterizza le ultime pagine), è il tentato stupro di una “operaia”, Laura di Lovable, che il suo ex-fidanzato, dopo giorni di stalking selvaggio, vorrebbe consumare nel parcheggio di Etnapolis. Anche in questa occasione, i protagonisti svestono i panni di lavoratori e rientrano ognuno nella propria umanità.

Suite Etnapolis risulterà un pietra miliare della poesia di questi anni, poiché pone la lirica nel solco della complessità drammatica e spesso disumana della quotidianità, non più epos ma caos, e costringe i versi a diventare testimonianza di un tempo in cui tutto è divenuto irreale, soprattutto il reale: “più irreale l’Etna… che Etnapolis ancora illuminata/dopo la chiusura”. E su tutto aleggia un forte senso di morte, di incompiutezza, di delusione, che si staglia alle vetrate dell’architettura di Fuksas e la rende ancora più infernale.

Tornando da Etnapolis dove prima

mai la morte avevo colto che ride

aggirarsi in così mosse visioni,

(salterellare da un carrello

a un altro, scancellare facce preda

di orgasmini a poco prezzo,

acquattarsi agli angoli di compiacimenti

specchi in camerini stretti come bare

verticali o, ancora, camuffarsi

nel bacio che disperato o no riempie

tempo e attesa di scale poco mobili)

volgo il pensiero all’imprevisto:

un mezzo pesante che sbanda e dritto

corre a macinarsi ossa e lamiere.

Ma mi aggrappo alla carne della tua coscia,

e nel buio dell’abitacolo ti chiamo

vita! tirandoti via da vuoti cui

a volte, in segreto,

anche tu ti affacci, forse.

Così riconduco a casa

stanchi provati felici

i miei nervi”. 

Andrea Italiano

Editing di Matteo Fais

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